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Natura, storia, cultura , tradizioni, eventi, immagini, jnformazioni e news di Carloforte e dell' Isola di San Pietro.

Lo “Struggiun” di Giancarlo Lapicca

Tutto quello che scriverò sullo Struggiun è frutto della memoria di un bambino. Può essere tutto sbagliato, persino il modo di scrivere il termine, perché sono frammenti di un passato trapassato che riaffiora ogni tanto nelle vicinanze del Carnevale (Carlevo’), confuso, sbiadito, remoto.
Struggiun è una parola della lingua ligure, significa letteralmente strofinaccio, ma a Carloforte Liguria d’oltremare, è pure sinonimo di malvestito, poco elegante, dozzinale.
Ma è anche sinonimo della Maschera tipica del Paizé.
Diversi luoghi in Italia hanno una loro maschera tipica, in Sardegna un filo lungo millenni ha preservato i riti ancestrali dei Mammuntones e delle loro altrettanto bellissime varianti che oggi rivivono nell’orgoglio della tradizione e nella rinascita turistica dei piccoli e grandi centri interni.
Lo Struggiun è morto. Cos’era lo Struggiun? Un travestimento per poveri e ricchi. L’elemento essenziale era la maschera, che veniva ricavata dalla fodera dei cuscini per bambini, cui si applicavano due aperture per gli occhi e una per la bocca, insomma come i precursori comici del KKK introdotti da Tarantino nel suo “Django”. Ma lo Struggiun era di più . Lo spazio intorno alle fessure veniva spesso truccato pesantemente donando alla maschera un aspetto da Joker ante-litteram nel contrasto tra il bianco immacolato della fodera e i colori sgargianti del trucco. Piccola frivolezza per distinguere i sessi, lo Struggiun femmina soleva ornare gli estremi lembi della maschera con fiocchetti colorati annodati alle punte del sacchetto a mo’ di codine.
Il resto era a piacere ecco perché era maschera per poveri, che il più delle volte, si arrangiavano con quello che si aveva in casa, ma anche per benestanti, che alla mascherina bianca abbinavano vestiti con pizzi e altre frivolezze.
Lo Struggiun non ti prendeva al lazo, non ti imponeva di bere vino alla salute di tutti, semmai si infilava nelle case della gente lieta di quella visita, e non ne usciva prima che gli venissero offerti per amore o per forza un bicchiere di rosolio o di anisetta (le ricordo bene queste “visite” in casa dei nonni). E poi sazio e rinfrancato dalla gioviale bevuta, usciva e continuava la baldoria, importunando, sempre con garbo, passanti e malcapitati, la festa proseguiva sino al punto di convergenza di tutti gli Struigguin, il Cineteatro Cavallera, chiamato affettuosamente “u Palassiu” locale quasi mitologico che pare uscito dritto dritto dal film i “Vitelloni” di Fellini. Oddio quest’ultimo, film di una bellezza struggente, nella festa di veglione ripercorre gli stessi modi di divertirsi, vizi e virtù dei veglioni carlofortini in modo impressionante.
Il Palazzo ospitava l’apoteosi della serata danzante dove tutti i Struggiuin placavano la loro sete di divertimento.
Lo Struggiun non lanciava urla feroci, ma aveva a suo modo una voce stridula e inquietante portata al femminile come tutti gli squilibrati stereotipati che ci propinano oggigiorno i thriller americani.
Ne ricordo ancora l’odore forte dei guanti di pelle marrone, perché persino le mani usava nascondere per non farsi riconoscere.
Lo Struggiun è morto, e non è che una legge della vita che dobbiamo giocoforza accettare. In questa isola incantata prima di noi vivevano le Janas, le fate della natura, volate via al rumore dello scrosciare dell’acqua sulla prua del Tagliafico. E mai tornate.
Lo spirito dello Struggiun, l’ha portato via con se Gemmo, divertirà altre genti, impaurirà altri bambini in altre terre, lontanissime da qui. Ci teniamo stretta “Allouin”, sappiamo fare i carri allegorici, figliastri dei carri del 1° maggio, siam tutti colorati e ci ripugna la povertà.
Lo Struggiun è morto con essa? Ma poi è realmente esistito? Forse sono solo i ricordi sbiaditi dei sogni di un bambino.
Dedicato a Gerolamo Danero noto “Gaghighetta”.

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